PERSONAGGIO. NICOLO' MELLI A 360°.

 Nicolò Melli intervistato dal Corriere della Sera

Nella pancia del Forum di Assago, al campo di allenamento dell’Olimpia Milano, che è un quartier generale vero e proprio, roba da Nba. Con le sale video, gli uffici dei coach e il ristorante, con i trofei allineati nel corridoio e alle pareti le foto che collegano passato e presente, Mike D’Antoni quando era il nostro Mike, Dino Meneghin, Tojo Ferracini, Roberto Premier, e giù fino ad Art Kenney, a Sandro Gamba e Cesare Rubini. In una delle immagini più recenti, lo scudetto del 2014 , c’è anche lui, ancora giovanissimo. Nicolò Melli da Reggio Emilia, capitano della Nazionale, è la persona giusta per parlare del campionato di basket che va a cominciare

Siccome è anche un uomo che legge, che si informa, che ha una sua visione del mondo, si può anche cominciare mostrandogli il messaggio di un adolescente malato di palla a spicchi, ignaro come la maggior parte dei suoi coetanei che un altro basket è possibile, in Italia e in Europa, non certo figlio di una qualità minore, solo diversa. «Eh, lo so. Un po’ centra la cultura dilagante degli highlights, spesso ci si ferma a quelli. Un po’ bisogna riconoscere che tutti noi viviamo del mito americano. Hanno i migliori atleti del mondo, e una potenza comunicativa senza pari».

Anche il miglior gioco?
«De gustibus. Difficile paragonare mondi così diversi. Io ho scelto di tornare indietro, mettiamola così».

Poteva restare?
«Non si è posto il problema. Ettore Messina mi ha chiamato, mi ha illustrato un progetto. Ho fatto qualche telefonata ad amici e colleghi. Ognuno di loro mi ha detto che Milano ha una delle migliori organizzazioni d’Europa».

E una volta qui?
«Confermo tutto. Nulla da invidiare alla Nba in termini di strutture e professionalità. Con la sensazione che il nostro movimento nella sua interezza abbia ripreso a crescere».

La principale differenza tra Nba e basket di area europea?
«Il basket è uno sport di squadra, ma tra i professionisti americani assume un carattere più individuale, dove ognuno è concentrato su sé stesso e dove sono più importanti i singoli giocatori che l’insieme».

Soddisfatto dei suoi anni in America?
«Avrei voluto un altro tipo di carriera, non lo nego. L’adattamento non è mai stato facile. Manca una dimensione umana che in Europa invece ancora conta».

I coach?
«Alvin Gentry, al primo anno a New Orleans. Gli altri, a cominciare da Stan Van Gundy, lasciamo stare...».

Tolti i grandi nomi, un giocatore che l’ha colpita?
«Kris Middleton dei Milwaukee Bucks. Una pulizia tecnica impressionante. Anche un po’ sottovalutato, secondo me».

Milano contro Virtus Bologna. Siamo tornati ai mai troppo rimpianti anni Ottanta?
«Le grandi rivalità fanno crescere un movimento, come Barca-Real o Fenerbahce-Efes in Turchia. Detto questo, come minimo ci sarebbero anche Venezia, che mi sembra molto forte, poi Brindisi e Sassari».

Cosa è mancato in questi anni al nostro basket?
«A un certo punto ci siamo dimenticati di puntare sui giocatori italiani, di farli crescere e aspettarli, senza prendere scorciatoie. Adesso mi sembra ci sia una inversione di tendenza, per fortuna».

Dov’era quando l’Italia giocò la finale olimpica nel 2004?
«Davanti alla televisione, indossando la canottiera di riserva della Nazionale. Avevo 13 anni. Calcio a parte, ogni Nazionale fa da traino al proprio sport. Infatti, i problemi iniziano quando ha meno successo».

Quanto avrebbe aiutato un bis a Tokyo?
«Lasciamo stare. Una ferita ancora aperta. Per la prima volta dopo tanti anni, abbiamo fatto un gran bel percorso, ne sono consapevole. Ma brucia la sconfitta con l’Australia, più che il quarto di finale con la Francia. Avessimo vinto quella partita, avremmo trovato l’Argentina, e allora chissà, avremmo anche potuto trovare una medaglia».

I suoi idoli da ragazzo?
«Il compianto Mike Mitchell, che fece grande Reggio Emilia. E poi Gianluca Basile, con il quale ho anche avuto la fortuna di giocare».

I coach ai quali deve di più?
«Salvo i presenti, Andrea Trinchieri che in Germania al Bamberg mi ha fatto maturare. E poi Zeljiko Obradovic, che ho avuto al Fenerbahce. Un fenomeno di lucidità, e di sincerità nei rapporti con i giocatori».

Salvo i presenti?
«La prego, lo scriva. Come è noto tra coach Messina e Trinchieri non c’è un grande amore reciproco...».

Cosa ricorda del suo primo scudetto a Milano?
«Ero così felice che volevo solo correre ad abbracciare i miei genitori in tribuna. Per questo, detti uno spintone a un tifoso che mi aveva subito messo le braccia al collo: era mio padre...».

Parla mai di politica?
«Ho le mie idee, ben precise. In determinati ambienti ne discuto, in altri non ne vale la pena. Ci si espone a critiche e attacchi inutili».

Sui social?
«Come biografia dell’account twitter sono spesso tentato di scrivere che il mio profilo non è una democrazia. Sono favorevole al confronto, ma ormai online trovo solo insulti e offese. Infatti, blocco e banno a tutto spiano».

Può bastare?
«No. Sarebbe necessario rendere obbligatorio un documento di identità per ogni profilo social. Così ognuno si prende le proprie responsabilità, anche legali, di quello che scrive. Altrimenti, la deriva diventa inarrestabile».

Che farà da grande Nicolò Melli?
«Voglio giocare fino al 2028, per fare le Olimpiadi di Los Angeles. Mia madre Julie aveva vinto con gli Usa l’argento di pallavolo a Los Angeles 1984. Sarebbe un cerchio anche familiare che si chiude. Dopo, addio basket. Non rimarrò dentro questo ambiente, che pure amo. La vita è breve, e io ho tanta voglia di viverla facendo altre esperienze, conoscendo altri mondi».

Fonte Corriere della Sera 

Basket, Serie A: Nicolò Melli torna a Milano: firmato un contratto  triennale - Eurosport

 

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